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Vinicio Capossela

Tredici canzoni urgenti

La carta della morte nei tarocchi, Sant’Antonio di Padova nella smorfia, la rivolta di Lucifero. Il 13 è un numero che spariglia la ciclicità, richiama la trasformazione radicale. Dalla sua simbologia emerge l’invito ad abbandonare ciò che non è più sostenibile di “Tredici canzoni urgenti” di Vinicio Capossela, Targa Tenco 2023 come miglior album dell’anno.

Aveva preparato un disco per le feste, Schützenfest, ma lo ha messo nel cassetto perché la contingenza ha imposto di scrivere altro (cosa affatto scontata dopo 30 anni di carriera). Tredici canzoni urgenti racconta il «campionario di mali» dell’antropocene e della società dello spettacolo. Se Ballate per uomini e bestie partiva dal reale per rifugiarsi nel vero della poesia, questo suo contraltare il reale non lo lascia mai. Ispirato all’intento civile dell’estetica brechtiana, rimane lì non tanto per sottolineare disperatamente che «il mondo cade a pezzi» (il disco comincia così) ma per renderlo più maneggevole, per innescare una reazione.

I primi tre brani abitano uno scenario non rassicurante. Nella valle d’ossa nucleare di Ezechiele in cui l’economia è legge e imperano le forme estreme dell’individualismo, la rivoluzione è accumulare i sentimenti umani nella nostra «tenda di Achille», lì dove la pietas trionfa dopo il furioso sfregio del corpo di Ettore. Lasciarsi la possibilità di scrivere grammatiche nuove rispetto a quelle imbarbarite della modernità in polvere.

Nell’esaltazione rapidissima di quella che Augé chiamava surmodernità il tempo prevale sullo spazio, che viene fruito sempre più rapidamente, perde spessore e diventa superficie. Rimangono i vuoti mentre pullula il «mall», perfetto simbolo dei non-luoghi. All you can eat è una formula di ristorazione ma è anche il motivo per cui siamo stati cacciati dal Paradiso: l’uomo ha abbassato lo sguardo e da antropos è diventato gaster, «gastrolatra digerente». Ha industrializzato l’impoverimento e ha creato un mondo “mcdonaldizzato”, piatto e omologato, che preferisce l’immagine all’immaginario, che si auto consuma e si sciala nell’abbondanza: «abbiamo fatto trenta, facciamo centocinquanta». Il dialogo sul bene civile è sostituito da rivendicazioni etniche, il singolo è talmente al centro da essere irrilevante. Non si è più per qualcosa ma contro qualcuno. Nel ranch impigrito della politica si consuma un duello da western all’italiana (con tutto il folk possibile) tra i populisti, che veleggiano sul senso di appartenenza polarizzato dalle seduzioni della rete, e gli optimates, che usano la cultura come segno di distinzione morale e vengono gabbati dal cortocircuito di valori. Gli stessi che Pasolini criticava in Una polemica in versi, pubblicata nel 1956 sulla rivista «Officina» per rispondere a un attacco del settimanale comunista «Il Contemporaneo». In questo duello tutti rivendicano e sono, su uno spunto dell’Opera da tre soldi, La parte del torto. Non c’è nave dei giusti in arrivo. Nel livellamento verso il basso diventa laterale pure lo studio e la scuola è microcosmo della società della prestazione. Non si capisce più se la conoscenza sia la lunga notte di Atena, che permette il racconto a Ulisse e Penelope, o «distanza che separa», come dice Tiresia a Ulisse.

Come l’attore nel teatro di Brecht, Capossela sceglie un punto di vista sociale perché l’ascoltatore trovi spunti per restituire al mondo il senso perduto. Il sacrificio delle Staffette in bicicletta si contrappone alla facilità dei bassi istinti. Quella cantata con Mara Redeghieri è una sorta di preghiera civile alle staffette partigiane e ai loro nomi di un altro secolo: ricordateci, insegnateci, perché l’infodemia tritura il passato e ci fa perdere il senso della storia, trasforma i fatti in eventi planetari a cui virtualmente e forse illusoriamente partecipiamo, ballando inerti quadriglie Sul divano occidentale.

Seppur intento a restituire il reale nella mimesi sintetica della canzone, Capossela non rinuncia a cooperare con la letteratura per aumentare la portata dell’immaginario. Dal canto IX dell’Orlando furioso, Gloria all’archibugio racconta l’uomo artista della distruzione. Una composizione musicale da battaglia, arrangiata da Raffaele Tiseo, riprende l’incontro di Orlando con l’«abominoso ordigno» di Cimosco re di Frisia, che infesta l’Olanda con il suo ferro bugio. Orlando lo uccide e getta il prodigio di Belzebù in mare, dove rimarrà finché il diavolo non lo farà riemergere, permettendo la creazione di cannoni e bombarde. Nell’industrializzazione delle armi (dall’archibugio alle bombe a grappolo) la guerra reifica tutto e pone l’uomo davanti alla propria mortalità. Dai 3 anni di Ariosto in Garfagnana prende spunto Ariosto governatore, canzone centrale del progetto. Un crocevia tra una ballata indie e il Rinascimento. Il poeta viene spedito a gestire una terra in cui i potenti sono intoccabili nei loro privilegi e a perdere sono sempre gli umili. Si accorge di non riuscire a incidere sulla realtà e nelle sue lettere ammette amaramente «non ho da offrire che parole». Quando la politica è asservita al «triste ordine del mondo», il fallimento è conclamato. Su modello brechtiano, La crociata dei bambini scandisce la marcia senza meta di chi cerca di fuggire dalle bassezze umane. Gli archi da cinema arrangiati da Tiseo e la malinconia del pianoforte accompagnano il racconto dell’orrore che l’assenza di pace provoca in chi non ha colpe. Come si legge in Madre coraggio e i suoi figli, «a noi altri, gente comune, vincere o perdere ci costa caro lo stesso».

Assecondare la legge di natura vuol dire annientare le strutture che permettono alla società di regolarsi. Capossela riflette sulla faccia nascosta (nemmeno troppo) dei femminicidi: l’incapacità di gestire le emozioni, l’amore come maschera di possesso, il machismo, la violenza domestica, la ridicolizzazione del sessismo. La cattiva educazione è arrangiata da Enrico Gabrielli dei Calibro 35, che mescola flauto e celesta con l’intonarumori di Cesare Malfatti dei La Crus e con i fiati di Mauro Ottolini, con una sorprendente Margherita Vicario a sussurrare le parole della vittima che pian piano si spegne. Canzone d’autore della miglior fattura.

Il presente ci sovrasta. Come scrive Debray, «gli oggetti si globalizzano, gli individui si tribalizzano». Luogo simbolo della pressa sociale è il carcere, buio emotivo scavato dalla forza, dalla schiavitù della procedura e dall’infantilizzazione del linguaggio. Arrangiata ancora da Gabrielli, Minorità riflette sulla “minore età” dei detenuti, quella che in Kant era l’incapacità di usare la propria intelligenza senza una guida. Ospite di Giovanni Truppi a Sanremo per cantare Nella mia ora di libertà (congiuntura di temi curiosa fra i loro dischi) Capossela ha approfondito un tema già incontrato nella Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde. Ha dialogato con Luigi Manconi, ha collaborato con Armando Punzo della Compagnia della Fortezza di Volterra, ha letto “Fine pena: ora” di Elvio Fassone, da cui arriva l’inciso «che sarebbe mai successo a lei se solo fosse nato dove sono nato io?». È la domanda di un ergastolano al giudice. Il carcere è lo specchio di una società che ha fatto delle disparità il suo habitus, che non sa e non vuole mettersi nei panni dell’altro.

Il futuro vago e liquido sommerge anche i più giovani, che proiettano la crescita sullo schermo. Il Cha cha chaf della pozzanghera è il ballo di un Peter Pan che non si vuole abituare a parlare piano, che vuole scoppiare il metaforico «pozzacchio» e giocare con il cielo. La potenza del gioco smonta lo «schema educativo» del Game Boy o di Tik Tok, elogia la fantasia e l’immaginazione contro la dittatura della duplicazione. Capossela suggerisce un futuro auspicabile in cui l’uomo prenderà coscienza di ciò che lo sovrasta e sarà «sostanza delle cose sperate», come scrive Fortini in risposta a quel poemetto di Pasolini. Ispirata a un libro di Patrick Leigh Fermor, Il tempo dei regali è un walzer che invita a considerare la vita stessa come un tempo pieno di bellezza a cui far caso. Come cantava Cohen, «è solo la crepa che libera la luce».

Tredici canzoni urgenti” è un racconto terrestre perché terrestre è l’uomo, fulcro della poetica di Capossela. I lampi biografici della prima trilogia inquieta, l’uomo al termine della notte, il freak, l’eroe, il rebet, il contadino, l’uomo imbestiato, l’uomo ammalato di consumo. Senza rapsodìa o mosaici mistici e con un dissacrante umorismo per iperbole, il pangermanico condivide con l’ascoltatore la cocente attualità, lanciando semi di luce nel dolore collettivo. In una scrittura concreta e a tratti spuria, che toglie il velo allegorico e lascia la parola terrena a raccontare il mondo, si ritrovano il gesto compositivo e lessicale autentico, le aperture melodiche del pianoforte, la visione romantica delle sinfonie e la commistione di generi, forme e strumenti. Rimane il gusto di fare musica assieme a un numero enorme di musicisti e artisti di generazioni diverse, dalla Vicario alla Redeghieri fino al sostrato dub anni Novanta nel ponte reggae di Sul divano occidentale, co-prodotta dal dj FiloQ e da Andrea Lamacchia

Capossela dilata la dimensione performativa della canzone. Dopo gli Atti unici ispirati a “Ballate per uomini e bestie” e il tour Bestiale Comedìa, dedica al nuovo lavoro concerti urgenti “a progetto”, in cui la scenografia non si basa sull’evocazione ma è il mondo stesso con le sue fratture. Ma non solo. Il suo immaginario ha dato spazio a un’idea di umanità possibile che ha preso vita in Alta Irpinia con lo Sponz Fest, che dal 20 al 27 agosto consumerà il suo decennale (clicca qui per il programma). Il tema è racchiuso nel ritornello di Ariosto governatore, ispirato al passo di Astolfo sulla luna: “Come li pacci”, come i pazzi. Un contenitore per il rito dionisiaco, il ricreo e la dissipazione ma anche per l’assenza di senno della guerra, la violenza e le minorità. Una festa, un rituale collettivo in cui il tempo non è addomesticato all’utile e il vuoto si riempie perché lo spazio, il locus, è protagonista.

Nell’Apologeticum si legge «Guarda dietro di te. Ricordati che sei un uomo». Con i tasti che ci abbiamo, sontuoso lied finale, incede sulla metafora del pianoforte sdentato, riprodotta nel packaging da Jacopo Leone: riconoscere la nostra finitezza e fare del limite una possibilità, scegliere di cosa essere fatti, è la via più felice per vivere la libertà.

Oppure finiremo come Pretejanni, re d’Etiopia, cieco e perseguitato dalle arpie perché ha provato a conquistare il Paradiso terrestre. E non è detto che ci sia Astolfo sull’Ippogrifo a darci illusione di salvezza.

Foto di Jean Philippe Pernot (1,2) e di Guido Harari ( 3,4)

 

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In dettaglio

  • Anno: 2023
  • Durata: 58:56
  • Etichetta: La Cùpa

Elenco delle tracce

01.Il bene rifugio
02. All you can eat
03. La parte del torto
04. Staffette in bicicletta
05. Sul divano occidentale
06. Gloria all'archibugio
07. Ariosto governatore
08. La crociata dei bambini
09. La cattiva educazione
10. Minorità
11. Cha cha chaf della pozzanghera
12. Il tempo dei regali
13. Con i tasti che ci abbiamo

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